Torre Alfina, torre de le “Streghe” do se va se vede. (La Torre delle Streghe dove vai la vedi)

Borgo | Il toponimo è composto dal sostantivo Turris, che connota l’originaria funzione difensiva del sito, accompagnato dal nome che designa l’intera area. Secondo un’ipotesi avanzata dalla storiografia locale, Alfina deriverebbe dalla locuzione latina ad fines, stante a indicare la caratteristica limitanea dell’altopiano, accertata in età medievale in rapporto al territorio diocesano e comunale di Orvieto.

 

Si ritiene più plausibile, invece, che il termine sia un prediale di origine germanica, di cui si hanno testimonianze anche altrove. Come tale, esso non si riferisce all’espressione di luogo latina, ma allude alla proprietà di chi ebbe in concessione il territorio nell’alto medioevo. Il prediale compare nelle fonti di XII secolo e risulta associato al semplice e generico nome Turris molto più tardi, quando l’insediamento fortificato era ormai da tempo compreso entro i limiti del contado di Orvieto. La nuova denominazione si affermò, verosimilmente, per l’esigenza avvertita dalle magistrature orvietane di distinguere il castello della Torre dell’Alfina da quello della Torre di San Severo, soggetti entrambi al dominio della città.

La Storia

La storia del borgo di Torre Alfina è tutt’uno con quella del suo castello. Nasce infatti nell’alto medioevo attorno a una torre d’avvistamento già esistente. Monaldo Monaldeschi nei Comentari Historici fa risalire questi fatti alla dominazione longobarda di Desiderio, nell’VIII secolo. Gente di Valcelle, Meana e Montecuccione ripararono qui, attorno a una torre fatta in fortezza. La posizione strategica di questo borgo è evidente, essendo posto sul punto più estremo e più elevato dell’altopiano dell’Alfina. Dall’alto dei suoi 602 metri sul livello del mare domina il paesaggio circostante a 360 gradi e per molti chilometri, praticamente inespugnabile. Non a caso, nel 1867 il generale Giovanni Acerbi, luogotenente di Garibaldi, lo scelse come quartier generale, ai confini dello stato pontificio, proprio per la sua posizione geografica tale da scoraggiare qualunque attacco.
La torre più antica, oggi inglobata nel castello, vide sorgere il primo nucleo che nel corso dei secoli X e XI venne fortificato. Risulta difatti facente parte dei castelli dell’orvietano nel catasto del 1292 con la denominazione “Castrum Turris”. Successivamente, con l’espandersi del borgo, la rocca originaria venne fortificata con una seconda cinta muraria, costituita per lo più dalle mura delle abitazioni oltre che da bastioni e munita di più porte d’accesso. Tra queste Porta Fuga e Porta Nuova, scomparse con i lavori di ristrutturazione voluti dal marchese Cahen. Ancora presente invece Porta Vecchia, che presenta tuttora i gangheri dell’antica chiusura e due feritoie per la difesa.

Il palazzo, costruito a ridosso della torre, fu dimora dei signori di turno. Prima i Risentii (secolo XIII), i cui stemmi delle pietre tombali sono ancora visibili nel cortile del castello e quindi, per legame di parentela con questi, i Monaldeschi di Orvieto, del ramo Cervara, che dominarono questo luogo dalla fine del 1200 fino alla seconda metà del 1600. In particolare dobbiamo a Sforza Cervara, ex capitano di ventura, la ricostruzione in stile rinascimentale del primitivo castello medievale. Tuttora di questa è visibile parte del cortile interno, un’ala decorata con affreschi, oltre a parti d’arredo interni e stemmi della famiglia. Presso la chiesa parrocchiale sono conservate quattro opere facenti parte della cappella gentilizia di questa famiglia: due grandi tele della fine del ‘500, una deposizione che riproduce nelle vesti di oranti Sforza Cervara con la famiglia; una natività dove si possono riconoscere gli stemmi dei Monaldeschi e della Comunità e due pale d’altare del secolo XVII. L’antica chiesa parrocchiale di Santa Maria che le conteneva e che attraverso la cappella gentilizia comunicava direttamente con il castello, fu demolita agli inizi del secolo XX e ricostruita sulla piazza di S. Angelo, nello stesso stile dell’attuale castello. Presso l’archivio della chiesa di Santa Maria, risalente alla fine del ‘500, sono riportate nei vari registri di battesimo, matrimonio e morte, date e nomi riferiti a vari componenti delle varie famiglie Monaldeschi che si sono avvicendate a Torre Alfina, confermando la loro presenza fisica in questo borgo.

Ai Monaldeschi della Cervara seguirono i marchesi Bourbon del Monte, in seguito al matrimonio di Anna Maria Monaldeschi con Gian Mattia del Monte, i quali tennero palazzo e proprietà per più di due secoli. Nel frattempo il borgo, che già dalla metà del ‘400 si governava in forma di comunità, divenne comune appodiato prima ad Orvieto e quindi ad Acquapendente. Con l’unità d’Italia passò definitivamente frazione del Comune di Acquapendente, com’è tutt’ora.

Sul finire del 1800 tutte le proprietà signorili furono acquistate dal Conte Edoardo Cahen, che si fregiò del titolo di Marchese di Torre Alfina.

I Cahen erano parte di una ricchissima famiglia ebrea di banchieri. Originali di Anvers in Belgio furono tra l’altro persone di raffinata cultura. Nei dipinti delle gallerie del castello sono visibili i ritratti di Matilde Serao e Gabriele D’Annunzio, il quale scrisse un’opera musicata da Rodolfo Cahen “Sogno di un tramonto d’autunno”.

Lo stemma di conte della famiglia è ancora visibile sul cancello della fattoria, prima dimora dei Cahen a Torre Alfina: un leone rampante con l’arpa, che sarà inglobato da Edoardo in quello successivo di marchese, insieme allo stemma della comunità di Torre Alfina, sede del marchesato, una torre di guardia sormontata da un fuoco, visibile oltre che sulle mura del castello, anche sopra le porte di antiche proprietà dei Cahen.

Edoardo fece ristrutturare completamente il palazzo Monaldeschi: l’immensa mole di pietra cercò spazio anche in varie parti del paese che furono completamente trasformate, come la zona che accoglie la Rampa d’accesso al castello o quella che guarda la piazza s. Angelo, occupata da un giardino pensile e dalla scalinata d’accesso. Quest’opera colossale fu affidata all’architetto Giuseppe Partini di Siena, e i lavori si protrassero fino agli anni venti del 1900. Edoardo non vide il castello finito ma volle comunque essere seppellito nell’amato bosco-giardino del Sasseto, che lui stesso aveva reso agibile con sentieri costruiti tra gli scogli, in una tomba-mausoleo realizzata nello stesso stile neogotico del castello e come questo rivestito in basalto e rifinito in travertino. Completò l’opera il figlio di Edoardo, Teofilo Rodolfo, arredando il castello con estrema ricercatezza e realizzando un grande giardino al di sopra del bosco. L’avvento del nazismo, le leggi razziali e poi la guerra interruppero questo sogno. Il castello divenne prima quartier generale dei tedeschi e poi depredato. Il marchese, espatriato già da tempo, morì a Parigi, lasciando tutto al maggiordomo, Urbano Papilloud. Questi abitò sporadicamente Torre Alfina e quindi si ritirò a Ginevra con la moglie.

Oggi Torre Alfina è un borgo che rivive e valorizza la propria storia e le proprie potenzialità: aria buona, tanto verde e strutture culturali e ricettive. Il Sasseto è annoverato nei parchi monumentali d’Italia. Il museo del Fiore e l’antico mulino ad acqua da poco ristrutturato ne fanno un gioiello all’interno della Riserva Naturale Monte Rufeno.
All’interno del borgo una serie di targhe in ceramica ricordano antichi siti, molti dei quali scomparsi mentre Chambre d’Amis, mostra permanente d’arte contemporanea all’aperto, ne valorizza gli angoli più suggestivi.

Il mausoleo neogotico tra i fiori del Parco

Dall’alto dei suoi 602 metri, il borgo domina a 360 gradi il paesaggio circostante. Risulta evidente la posizione strategica del luogo che ha dato origine alla torre più antica, oggi inglobata nel castello. Con l’espandersi del borgo, la rocca originaria venne fortificata con una seconda cinta muraria, costituita da bastioni, dalle mura delle abitazioni e munita di più porte d’accesso. Due di queste sono scomparse con i lavori di ristrutturazione del marchese Cahen, mentre è ancora presente Porta Vecchia.

Il palazzo, costruito a ridosso della torre, fu dimora dei signori di turno. Prima i Risentii (secolo XIII), i cui stemmi delle pietre tombali sono ancora visibili nel cortile del castello e quindi, per legame di parentela, i Monaldeschi di Orvieto, del ramo Cervara, che dominarono questo luogo dalla fine del Duecento fino alla seconda metà del Seicento.In particolare si deve a Sforza Cervara, ex capitano di ventura, la ricostruzione in stile rinascimentale del primitivo castello medievale. Del periodo rimangono parte del cortile interno, un’ala decorata con affreschi, alcuni arredi e stemmi della famiglia. Presso la chiesa parrocchiale sono conservate alcune opere che facevano parte della cappella gentilizia: due tele tardocinquecentesche, una Deposizione che vede nelle vesti di oranti Sforza Cervara e i suoi familiari; una Natività dove si riconoscono gli stemmi dei Monaldeschi e della Comunità, e due pale d’altare del secolo XVII. Fu Edoardo Cahen a ristrutturare il palazzo Monaldeschi. L’immensa mole di pietra cercò spazio anche in varie parti del paese che furono completamente trasformate, come la zona che accoglie la rampa d’accesso al castello o quella che guarda la piazza Sant’Angelo, occupata da un giardino pensile e dalla scalinata d’accesso. Quest’opera colossale fu affidata all’architetto Giuseppe Partini di Siena, e i lavori si protrassero fino agli anni Venti del Novecento. Edoardo non vide il castello finito ma volle essere seppellito nell’amato bosco-giardino del Sasseto, che lui stesso aveva reso agibile con sentieri costruiti tra gli scogli, in una tomba-mausoleo realizzata nello stesso stile neogotico del castello e come questo rivestito in basalto e rifinito in travertino. Completò l’opera il figlio di Edoardo, Teofilo Rodolfo, arredando il castello con estrema ricercatezza e realizzando un grande giardino al di sopra del bosco. L’avvento del nazismo, le leggi razziali e poi la guerra interruppero questo sogno.

Il castello divenne prima quartier generale dei tedeschi e poi depredato. Il marchese, espatriato già da tempo, morì a Parigi, lasciando tutto al maggiordomo, Urbano Papilloud. Questi abitò sporadicamente Torre Alfina e quindi si ritirò a Ginevra con la moglie. Oggi Torre Alfina è un borgo che rivive e valorizza la propria storia e le proprie potenzialità: aria buona, tanto verde e strutture culturali e ricettive. Il Sasseto è annoverato nei parchi monumentali d’Italia. Il Museo del Fiore e l’antico mulino ad acqua da poco ristrutturato lo rendono un gioiello all’interno della Riserva Naturale Monte Rufeno. All’interno del borgo una serie di targhe in ceramica ricordano i luoghi scomparsi mentre Chambre d’Amis, mostra permanente d’arte contemporanea all’aperto, valorizza gli angoli più significativi. Nel capoluogo Acquapendente merita una visita la Cripta del Santo Sepolcro, all’interno della quale si trova il sacello che riproduce il Santo Sepolcro di Gerusalemme, dove sono custodite le pietre che, secondo tradizione, sarebbero state bagnate dal sangue di Cristo durante la Passione. Questa costruzione, una delle più importanti cripte romaniche d’Italia, risale alla seconda metà del X secolo, quando Acquapendente, che si trovava sulla Via Francigena, era diventata tappa di passaggio per i pellegrini diretti a Roma.

Il prodotto del borgo

IL GELATO

Alla fine degli anni ’60 a Torre Alfina inizia la produzione del gelato artigianale, enorme innovazione per quei tempi, tanto che pian piano negli anni per gli abitanti dell’alto Lazio, dell’orvietano e della bassa Toscana, andare a mangiare il gelato a Torre Alfina diventava un vero e proprio pellegrinaggio, che tuttora continua.

Le caratteristiche che hanno fatto divenire famosa Torre Alfina con il suo gelato sono di sicuro le speciali coppe innovative con un intuito raffinato negli abbinamenti, e soprattutto l’utilizzo da sempre di prodotti genuini e di alta qualità in perfetta armonia con il territorio in cui è situata.

I prodotti di cui non si può fare a meno per il gelato di qualità sono il latte fresco e la panna fresca, che danno al prodotto un ottimo sapore, apportano il grasso più nobile e una eccezionale cremosità.

L’accurata scelta di tutte le materie prime tiene impegnati, durante la bassa stagione, i gelatieri di Torre Alfina sempre alla ricerca di nocciole delle Langhe, pistacchi di Sicilia, ricotta romana che i nostri nonni abbinavano alla cannella, e così l’impegno continuo a scovare tutti i prodotti migliori per fare un gelato buonissimo.

Il piatto del borgo

PAPPARDELLE AL CINGHIALE

Le Pappardelle al cinghiale sono di sicuro uno dei piatti più tipici del borgo di Torre Alfina. È un piatto antico che trae le sue origini dalle “fettuccine alla lepre” che cucinavano le nostre nonne. Nel corso degli anni, con il proliferare a dismisura dei cinghiali nei boschi che circondano il borgo di Torre Alfina, anche la cucina ha risentito di questo fenomeno, sostituendo progressivamente, nella preparazione del ragù, la carne della lepre con quella di cinghiale, dando origine a questo piatto prelibato e caratteristico.

La pasta, tagliata larga, è all’uovo e viene rigorosamente fatta in casa.

Nonostante sia un piatto “bianco” è caratterizzato da sapori decisi, tipici di quelli a base di cacciagione.

Da oltre 10 anni è protagonista della omonima Sagra, famosa in tutta la zona, che si svolge durante la settimana di Ferragosto nella piazza centrale del Borgo.