Abbateggio, Paese del farro e del Premio Parco Majella
Abbateggio, Paese del farro e del Premio Parco Majella

Borgo | Le prime attestazioni del nome, risalenti al XII sec., compaiono nel Chronicon Casauriense nelle forme de Bateju (a. 1111), Abbatejum (a. 1140), al tempo dell’invasione normanna di questo territorio e delle aspre contese con i monaci di San Clemente a Casàuria...

 

I Normanni, che parlavano l’antico francese, chiamarono la località con la voce ab(b)ateis ‘ azione di abbattere’, ‘ cosa abbattuta’ e in particolare ‘ bosco ceduo’, ‘bosco abbattuto di recente’, che è un derivato dal participio passato del lat. a b b a t t (u) e r e composto col suffisso -a t i c i u s, estesosi analogicamente dalla prima coniugazione verbale in -atus anche a radicali di verbi di altre coniugazioni.

Dial. dabbëtjàjjë, bbëtjàjjë(arc.), abbatèggë (mod.) - etnico: it. abbateggiàno, -àni = dial. bbatëggiànë (sing.), bbëtëggìnë (pl.)

La Storia

Le origini dell'abitato attuale sembrano risalire agli anni immediatamente successivi alla fondazione del Monastero di San Clemente a Casauria ad opera di Ludovico II (871 d.C.). Tra i feudatari che si sono avvicendati nel corso dei secoli si ricordano: Riccardo Trogisio (1140), Bertrando del Balzo (1269), Corrado Acquaviva, Agnese de Trogisio (1355), Giovanni de Ursinis (1382). Nel 1390 Abbateggio risultava in potere del Regio Demanio, mentre nel 1479 ne era feudatario Giovanni Luigi Fieschi di Genova. Il 18 aprile 1487 il re Ferdinando I d'Aragona dona a Organtino de Ursinis il Contado di San Valentino comprendente, oltre la stessa San Valentino, Pianella, Bacucco (l'attuale Arsita), Abbateggio ed il Casale di Cusano (attualmente frazione di Abbateggio). Tale concessione fu confermata nel 1507 al figlio Francesco de Ursinis, che però vendette il Contado a Giacomo de Phrigiis Poenatibus de Tolfa, avo di quel Carlo, che il 3 febbraio 1583 vendette la proprietà a Margherita d'Asburgo (detta Margherita d'Austria), moglie di Ottavio Farnese, duca di Parma e Piacenza. Il Castello di Abbateggio rimase proprietà dei Farnese sino al 1731 quando, con l'estinzione del Casato farnesiano, il Ducato di Parma e Piacenza passò a Carlo III di Borbone, figlio del re di Spagna Filippo V e di Elisabetta Farnese. Da questo momento in poi il paese di Abbateggio ritorna sotto il dominio del Regno di Napoli. Durante i moti del 1799 le masse di Abbateggio si unirono a quelle dei paesi limitrofi sotto la guida del capo-massa sanfedista Francesco Paolo De Donatis per combattere contro i francesi della Repubblica Partenopea e favorire la restaurazione dei Borbone. I briganti furono però sconfitti ed annientati dalle truppe francesi nei dintorni di Manoppello. Nel periodo dell’unità d’Italia anche Abbateggio fu coinvolto nel fenomeno del brigantaggio borbonico; furono diversi i cittadini che si unirono alla banda della Majella, di cui facevano parte i briganti Domenico Di Sciascio di Guardiagrele e Nicola Marino di Roccamorice. Come comune indipendente, Abbateggio venne soppresso nel 1929 nell'ambito della riorganizzazione amministrativa voluta da Mussolini, che lo riunì sotto un'unica giurisdizione di San Valentino assieme a Roccamorice. Il comune di Abbateggio venne ricostituito nel 1947 con Decreto Legislativo del Capo Provvisorio dello Stato.

Le Capanne a tholos

Le capanne a tholos strutture in pietra a secco costruite da pastori e contadini come ripari; la loro forma ricorda i trulli pugliesi ed i nuraghe sardi. Sono stati descritti per la prima volta nel 1876 dal chietino Giovanni Chiarini, ma solo nel 1992 uno studio di Edoardo Micati tenta un censimento completo dei migliaia di tholos presenti sulla Majella, sul Gran Sasso e sulla Montagna dei Fiori. Tra le zone citate, la Majella risulta essere la più ricca di tali capanne (circa il 75% del totale), che sono diffuse fino a 1850 metri di quota. I complessi più interessanti si possono osservare nella Valle Giumentina, qui si può ammirare un gruppo di capanne a tholos, notevoli per fattura e dimensioni. L'edificio principale del gruppo è il più grande dei circa cinquecento esemplari di questo tipo sparsi nella zona, ed è l'unico a due piani. Sono presenti altri edifici minori a formare un piccolo nucleo abitativo e si individuano chiaramente abbondanti resti dei muri che anticamente circondavano gli stazzi.

Altri complessi si trovano nel territorio di Roccamorice, in particolare sono da menzionare i tholos di La Valletta e di Colle della Civita.

Il centro storico: il piccolo centro abitato di Abbateggio è costituito da un nucleo antico di piccole case in candida pietra locale, aggrappate ad uno sperone roccioso che domina la stretta valle del Fosso Fonte Vecchia, e da una parte più recente, risalente ai primi anni del 1900. La parte più antica del paese si presenta come un minuscolo borgo di piccole case in pietra, tortuose stradine e ripide scalinate, discendendo le quali ci si affaccia d'un tratto verso paesaggi di selvaggia bellezza. Sorge sul sito dove anticamente si ergeva il castello di Abbateggio, ricordato negli antichi manoscritti. La parte più alta, invece, è costituita di case rurali in pietra con le caratteristiche dipendenze (stalle, fìenili, depositi), in buona parte ancora utilizzate dagli agricoltori locali, inframmezzate da orti e piccoli campi, nonché da alcune eleganti abitazioni signorili a due o tre piani. Il centro storico ospita:

La Chiesa di San Lorenzo Martire è a pianta rettangolare, ad una sola navata, con facciata classica e portale in stile quattrocentesco; il campanile quadrangolare racchiude una pregevole gradinata a chiocciola, autentico piccolo capolavoro in pietra locale. Il suo interno è di stile barocco moderno, con semicolonne rettangolari con capitelli, rosoni e stucchi. Forse le decorazioni sono opera dello stuccatore ticinese Pietro Francesco Canturi. Di discreta fattura è la statua lignea del Santo Patrono e l’acquasantiera in pietra scolpita, opera del ‘600.

Il Santuario della Madonna dell’Elcina, che lo scribano Domenico Puglielli, trovando difficoltà ad italianizzarne la forma dialettale, la cita come dedicata alla Madonna della Lécina, sorge su una collina rocciosa a breve distanza dal centro storico del paese. Dalla sua posizione, spaziando con la vista a 360°, si scorge il Gran Sasso d’Italia, i Monti della Majella e del Morrone e il mare Adriatico. La chiesa, nella sua fattezza attuale, in pietra locale, è di recente costruzione, ma di antica fondazione e riveste un notevole valore storico-artistico-religioso per tutta la vallata.

La tradizione vuole che due pastorelli muti di Abbateggio, pascolando le pecore sulla collina dell’Elcina, videro su di un albero di elce (leccio) una Signora e, ai piedi dell’albero, un quadro che rappresentava la Madonna seduta su un albero con in braccio Gesù Bambino. La Signora disse ai pastorelli di desiderare una Chiesa su quel colle, ripetendo per tre volte la medesima richiesta. Alla terza volta i pastorelli corsero verso casa raccontando alla loro madre il fatto prodigioso. Sul luogo dell’apparizione corse gente a torme. Mentre i pastorelli estasiati vedevano la Madonna sull’albero, la folla vedeva solo il quadro. La sacra immagine fu presa dalla folla di fedeli e devotamente portata nella Chiesa parrocchiale di San Lorenzo Martire, ma la mattina seguente fu ritrovata miracolosamente presso l’albero. Riportata nella Chiesa, fu di nuovo rinvenuta presso l’albero. Dopo la terza traslazione e il terzo rinvenimento presso l’albero fu costruita una piccola Chiesa, che è quella della Madonna dell’Elcina. Durante l’apparizione della Vergine, che la tradizione fa risalire tra il XV e il XVI secolo, i monaci di Santo Spirito a Majella, dalle loro alture, osservavano una luce intensa sul colle dell’Elcina.

La Chiesa nel suo stato attuale è di recente costruzione, fu rifatta ed ampliata su quella antica nel 1927. Il 28 marzo del 1926 ci fu la posa della prima pietra. Entro una particolare edicola, è situata la statua della Madonna dell’Elcina in terracotta tinteggiata.

La statua, alta circa 1.30 m., risale ai primi decenni del secolo XVI realizzata, molto probabilmente sulla base iconografica di Silvestro di Giacomo de L’Aquila. Sotto l’altare vi è situato un tronco di elce che si addita come un resto dell’antico albero sul quale apparve la Vergine, mentre presso l’altare, sul lato sinistro, vi è situato un quadro dipinto ad olio su tela rappresentante la Madonna che, in tunica rossa e manto azzurro, seduta su di un albero, sostiene fra le braccia il Bambino ignudo e benedicente. Il quadro può riferirsi al secolo XVII e fu rinvenuto dietro la statua della Madonna durante il restauro della Chiesa nel 1927. Nonostante l’incongruenza cronologica, il popolo ritiene che sia il quadro trovato dai pastorelli e dagli abbateggiani al tempo dell’apparizione della Vergine.

La Chiesa dedicata alla Madonna del Carmine, recentemente ristrutturata, è di piccola fattura, in pietra locale, a pianta rettangolare ad una sola navata con volta a botte e calotta dell’abside a semicupola. Se ne ignora l’anno di costruzione, ma si è a conoscenza che nel 1743 esisteva già ed era censita come “Chiesa della M. del Carmine extra moenia”, cioè sita fuori le mura di cinta del paese. Sul portale esterno della Chiesa vi è una iscrizione “Sant’Antonio”. Non è chiaro se la chiesa inizialmente fosse stata edificata in onore di Sant’Antonio (Abate o di Padova), visto che ne esiste il culto, e successivamente con la diffusione in Abruzzo delle congreghe carmelitane dedicata alla Madonna.

La Chiesetta dedicata a San Biagio nella contrada San Martino di Abbateggio è stata ristrutturata l’ultima volta nell’anno 1986. Il busto del santo posto sopra l’altare è autentico e molto antico.

L'importante sito di Valle Giumentina rappresenta una delle principali testimonianze del Paleolitico inferiore e medio in Abruzzo. Fin dal secolo scorso vi fu segnalata la raccolta in superficie di importanti reperti; si deve all'opera del prof. A.Mario Radmilli dell'Università di Pisa lo scavo sistematico del giacimento negli anni 1954-55. Gli studi di carattere geologico hanno messo in luce la persistenza di uno specchio lacustre definitivamente prosciugatosi circa 40.000 anni fa. Attorno al lago stanziarono per un ampio intervallo di tempo gruppi umani del Paleolitico. Ciò è testimoniato da interessanti ritrovamenti di manufatti derivanti dalla lavorazione di ciottoli e selce. La particolarità di questa lavorazione e l'abbondanza di reperti hanno fatto di questo sito uno dei più importanti in Abruzzo.

Il sito archeologico della contrada Sant’Agata appare legato alla presenza di un piccola chiesa altomedievale e medievale di cui oggi, grazie agli scavi della Soprintendenza per i Beni Archeologici per l’Abruzzo, è stato riscoperto l’altare votivo al quale le donne si recavano per propiziarsi la fecondità e l’abbondanza di latte; la Santa, infatti, era spesso invocata dalle donne quando avevano problemi nell’allattamento. Il sito di Sant’Agata rappresenta uno dei capisaldi storico-topografici della presenza dell’uomo in questo territorio. Gli scavi hanno rimesso in luce i resti della chiesa, nelle cui strutture risultano rimessi in opera i resti di un preesistente edificio monumentale antico. I numerosi reperti sinora rinvenuti, fra cui l’avanzo di una monumentale colonna, sono attualmente conservati presso il Comune di Abbateggio.

Il sito archeologico del bivio Col di Gotte alcuni primi saggi archeologici nella zona hanno rivelato la presenza di un ampio complesso antico, risalente nelle sue prime fasi al II-I secolo a.C. Gli scavi sinora condotti hanno restituito un frammento di statua di grande importanza, la parte inferiore del busto di una statua in pietra calcarea, con attacco delle gambe e testina di figura di minore rango visibile fra le gambe, nonché parte di una mano ove sono ben videnti sei dita, particolare che consente di riconoscere nella figura principale una raffigurazione di Ercole. L’importante dio antico compare su questo sito, in evidente correlazione con una fonte sacra, ed a testimonianza della probabile dedicazione proprio a lui del santuario i cui resti archeologici hanno iniziato a riemergere dalle nebbie della storia a seguito dei primi saggi condotti.

La Valle del Lejo formata dall’unione di Fosso Cusano e Fosso Fonte Vecchia, vi è ubicato un importante sito minerario che fa parte del progetto ”Ecomuseo della Majella”, imperniato sull’archeologia delle industrie minerarie, sull’architettura rurale e pastorale e sull’ambiente naturale. Inserito nel progetto e già realizzato è l’Ecomuseo della Majella - Valle del Lejo museo sull’archeologia mineraria, esposizione permanente all’aperto di alcuni reperti simbolici del mondo minerario locale, quali riproduzione di miniera e teleferica, cartelli ed opere accessorie rappresenta un punto di visibilità, di accoglienza e di informazione, in cui acquisire le informazioni e da cui partire per visitare, poi, i luoghi dell’ecomuseo.

Macchia di Abbateggio uno dei boschi più suggestivi che caratterizzano le pendici della Majella la sorgente la Morgia, che rappresenta una delle principali emergenze del massiccio della Majella. È ubicata a quota 960 metri s.l.m. sul versante nord-occidentale della Majella, è caratterizzata dalla presenza di fenomeni carsici che si manifestano con infiltrazioni concentrate di acqua e con successive riemergenze a quota più bassa.

Il prodotto del borgo

Il farro antico alimento, la cui coltivazione risale alle epoche più antiche degli Egiziani e delle stirpi del Mediterraneo; anche l’antica letteratura orientale, greca, biblica e romana, parla frequentemente di farro come un nutrimento abituale e come materia di offerta preziosa da presentare alle divinità. Con la comparsa nell’area del Mediterraneo del grano tenero e duro è andato diminuendo progressivamente l’uso del farro, la cui coltivazione permane in zone limitate in aree di montagna con terreni freddi e calcarei; la sua ricchezza consiste nella scarsità di grassi e nell’abbondanza delle sostanza amidacee.

Il piatto del borgo

Insalata di farro

Ingredienti: 2 tazze di farro integrale, 5 cipolle fresche, 1 pomodoro rosso, 1 cetriolo, 100 g olive nere snocciolate, 10 foglie di lattuga, olio di oliva q.b., prezzemolo 1 ciuffo, sale un pizzico.

Preparazione: tagliare le verdure (tranne prezzemolo e lattuga), porle in una terrina o in un piatto, salarle superficialmente e lasciare macerare per 20 minuti. Tostare il farro per qualche minuto sempre mescolando, dopo averlo lavato e scolato (questo processo lo rende più digeribile); aggiungere 4 tazze di acqua bollente salata, coprire la pentola e cuocere a fiamma medio-bassa per 25 minuti, lasciare gonfiare per 5 minuti a fuoco spento. Mescolare le verdure macerate con il farro e aggiungere olio assieme al prezzemolo tritato (che è un potente rimineralizzante se mangiato crudo). Mettere il “farrotto” in coppe sciacquate con acqua fredda, capovolgere le coppe con cura su un letto di lattuga.

Minestra di farro

Ingredienti: 50 g di farro*, 1 cipolla, 1 carota, 1 gambo di sedano, 1 patata, maggiorana, 1 spicchio d’aglio, 200 g polpa di pomodoro, 2-3 cucchiai di olio extravergine di oliva, 1 cucchiaio prezzemolo tritato, 1 litro e mezzo di brodo vegetale, crostini di pane casereccio tostato.

*Il farro va messo a bagno per almeno 12 ore prima della cottura.
Preparazione: preparare un trito con carota, cipolla, sedano, aglio e maggiorana; fare insaporire tutto con un cucchiaio di olio. Unire la polpa di pomodoro e fare cuocere per 5 minuti; aggiungere il brodo vegetale, le patate a dadini, il farro e proseguire la cottura a fiamma bassa e pentola scoperta per circa 40 minuti (anche 1 ora se si usa il farro integrale). Salare, controllare che la minestra resti della giusta densità; infine, spolverizzare con il prezzemolo, distribuire in fondine e servire con olio crudo e crostini di pane.